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FACCIAMO UNA PROVA!
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                  Ma sì, senz’altro: altrimenti quella sarebbe già stata nota come pineta assassina e a
                  quel punto l’avrebbero transennata.
                  L’occasione si presentò il giorno in cui mia cugina Simonetta venne a trovarci da To-
                  rino. Simonetta aveva undici anni, ma sembrava che ne avesse quattordici. Le gambe
                  lunghe, i capelli ribelli e fulvi: la vedevo molto grande, più indipendente di me, più
                  intelligente, più speciale.
                  Insomma, quel giorno lei era sulla bici di mia madre e io sulla mia. Arrivate alla curva,
                  Simonetta indicò la pineta e mi disse: – Dai, diamo solo un’occhiata e poi torniamo!
                  E io non riuscii a dirle di no.
                  – Andiamo piano... – le proposi. – Mi fa male il ginocchio.
                  Era una bugia: in realtà volevo avere il tempo di fare dietrofront in caso di pericolo.
                  La pineta si mostrò proprio come me l’ero immaginata: il terreno era ricoperto di aghi
                  di pino; al centro c’era un sentiero battuto; si vedevano delle radici affiorare, ma erano
                  ben visibili e si potevano schivare; l’odore era di caldo, con le cicale sopra, di fianco e
                  dietro. Una cosa però più delle altre mi colpiva: a guardare in su, sembrava che i pini
                  fossero altissimi, le punte convergevano e facevano girare la testa.
                  Ma ecco, più in là, un gracidare rauco di ranocchie.
                  – Ci deve essere uno stagno... – sussurrò Simonetta indicando in direzione delle rane.
                  Alla parola stagno mi si ghiacciò il sangue, ma non ebbi il tempo di fare nulla: lei aveva
                  già accelerato e preso a pedalare più spedita.
                  Poi lo vedemmo. Era un acquitrino con un odore acre e dolciastro; coperto di muschio,
                  era circondato qua e là da sparuti fili d’erba. Ma soprattutto era vivo: insetti si muo-
                  vevano sul pelo dell’acqua, due rane brune si confondevano col terreno; pescetti neri,
                  che Simonetta identificò come girini, si scorgevano dove l’acqua era meno fangosa.
                  Quelle erano le sabbie mobili.
                  – Che bello! – esclamò mia cugina. – Chissà se è profondo...
                  Scese dalla bici, raccolse un sasso e lo tirò al centro.
                  Il sasso prima galleggiò, poi pian piano fu inghiottito, sprofondando al rallentatore.
                  “Allora sono queste le sabbie mobili...” pensai, e proprio in quel momento Simonetta,
                  chinandosi per raccogliere un altro sasso, scivolò dentro.
                  Fu solo un attimo, e quell’attimo fu eterno. Pensai terrorizzata che mia cugina sareb-
                  be scomparsa come il sasso e che, se le avessi dato una mano per tirarla fuori, sarei
                  scomparsa insieme a lei.
                  Udii una sua esclamazione di disgusto, poi la vidi di fianco a me, sporca e grondante
                  fango dalla vita in giù.
                  – Torniamo a casa... disse. – Mi devi aiutare a lavarmi, perché se tua madre mi vede
                  così conciata questa sera mi fa saltare la cena.
                  Rideva un po’ nervosamente, invece io non ridevo per niente.
                  – Ma perché sei così pallida, non ti senti bene? – commentò inforcando la bicicletta.
                  Tornammo a casa veloci, senza dirci nemmeno una parola.
                                                                                                Marcella Papeschi








                                                                                                           segue
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