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                  Zimbo correva e pensava: “Non va bene arrivare tardi a scuola in un giorno qualsiasi,
                  figuriamoci il primo!”.
                  Fortunatamente conosceva una scorciatoia che gli avrebbe permesso di arrivare in tempo.
                  Girò in direzione del parco. Attraversandolo si arrivava dritti alla scuola.
                  Oltrepassò il cancello e si lanciò in una corsa veloce. Ogni suo passo era segnato dallo
                  scalpiccio delle foglie secche e solo il guaire dei cani faceva più rumore.
                  In fondo al parco c’era il canile comunale e tutti i randagi presi nelle reti degli accalap-
                  piacani finivano rinchiusi nell’attesa che qualche persona buona li venisse a liberare e
                  li tenesse con sé.
                  Raggiunse il piccolo stagno recintato. Le sue gambe rallentarono, mentre con la coda
                  dell’occhio fissava quell’acqua verde e immobile. Scavalcò la staccionata, si inginocchiò
                  e vide l’acqua incresparsi. Diverse rane saltarono fuori e, quando una balzò a un palmo
                  dal suo naso, Zimbo l’afferrò. Rimase un po’ a osservarla e si accucciò per rimetterla
                  in acqua.
                  – Ehi tu, ragazzino! – tuonò una voce alle sue spalle.
                  Zimbo si arrestò di colpo con il cuore in gola. Era vietato scavalcare la staccionata e
                  afferrare le rane. D’istinto infilò la mano nella tasca del giubbotto e ci lasciò cadere la
                  rana. Si girò e si ritrovò davanti due uomini in divisa da accalappiacani.
                  – Hai visto passare un randagio? Media stazza, color crema. È scappato dal canile,
                  l’hai visto?
                  Zimbo balbettò: – No – e corse via a gambe levate.
                  Era quasi arrivato a scuola, quando notò che un cespuglio si agitava in modo strano.
                  Si avvicinò e vide due occhi che lo fissavano: il cane dietro il cespuglio fece capolino.
                  Media grandezza, color crema. Muso dolce e simpatico, coda sventolante.
                  Non c’erano dubbi, era il cane scappato dal canile. Zimbo gli carezzò il muso e riprese
                  la corsa.
                  Raggiunse l’ingresso della scuola e si accorse che il cane lo aveva seguito fin là.
                  – Non puoi entrare – gli disse, scuotendo il dito indice.
                  Il randagio guaì e si allontanò di qualche passo.
                  Zimbo salì in classe e si accorse che era davvero tardi. Bussò educatamente, attese
                  il permesso ed entrò. Una donna di mezza età lo scrutò dall’alto in basso. Era alta e
                  magra, con i capelli grigi legati a cipolla e lo sguardo severo dietro la montatura d’oro.
                  – È questa l’ora di arrivare? – chiese la donna, contrariata. – Cominciamo bene! Trovati
                  un posto e siediti... subito!
                  Poi consultò il registro. – Tu devi essere Zimbo, Zimbo Suarez. Mi ricorderò il tuo nome!
                  Zimbo, imbarazzato, sedette nell’unico posto rimasto libero. Non fece in tempo ad
                  appoggiarsi alla sedia che il ricordo della rana lo fece scattare in piedi come una mol-
                  la. Dove era finita? Cercando di non farsi notare controllò in entrambe le tasche del
                  giubbotto, ma la rana sembrava sparita.
                  Al suono della campanella tutti afferrarono gli zaini e si precipitarono fuori. Tutti tranne
                  Zimbo, che attese di rimanere solo nella classe per cercare la rana e riportarla nello
                  stagno. Guardò in ogni angolo ma non la trovò.




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