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                  L’olmo al centro della piazza di Gorbio aveva compiuto, da pochi giorni, cinquecento anni.
                  Era più vecchio delle balene che di tanto in tanto si erano affacciate sull’orizzonte del
                  mare. Era più vecchio delle nuvole gonfie di pioggia e profumate di lavanda che con-
                  tinuavano ad arrivare dalla Provenza.
                  L’olmo aveva visto costruire le mura del paese, alzare le torri, combattere le guerre.
                  Aveva conosciuto generazioni e generazioni di gatti e di verdoni, di gechi e di rondini,
                  di topi e di cardellini. Aveva raccolto sotto la sua ombra bambini che erano diventati
                  a poco a poco vecchi.
                  Aveva conosciuto giornate di sole, pioggia, vento e lampi rossi e azzurri.
                  E ora anche lui si sentiva stanco. Il grande tronco era coperto di strappi e cicatrici, sulla
                  sottile corteccia i rami crescevano esili.
                  Un mattino morì.
                  In paese non ci vollero credere e aspettarono per mesi di vedere qualche germoglio
                  verde uscire tra le muffe del tronco. Ma nessun germoglio fiorì sulla corteccia.
                  Decisero di abbatterlo. Volevano sostituire il grande tronco muto con un giovane olmo.
                  La legna del grande olmo rimase sulla piazza per molti giorni.
                  Ogni tanto qualcuno diceva: “Ne prendo un pezzo. Per far fuoco è ancora buono”. In
                  realtà volevano tenerselo per ricordo.
                  Anche Fransè, il falegname del paese, raccolse un pezzo del tronco. Lo portò nella
                  sua bottega.
                  Pensava di trasformarlo in qualcosa che gli ricordasse il vecchio olmo che aveva visto
                  suo nonno e il nonno di suo nonno.
                  – Faccio una sedia – disse.
                  – Faccio una cassapanca – disse.
                  – Faccio un letto – disse.
                  Fransè non era soddisfatto. Così andò alla finestra a guardare la piazza dove fino a
                  qualche mese prima il vecchio olmo respirava le sue giornate.
                  Fransè pensava e l’idea arrivò.
                  Ritornato in bottega cominciò a segare, a piallare, a manovrare lunghi ferri infuocati.
                  Fino a quando il lavoro fu finito.
                  Fransè aveva fabbricato un lungo flauto. Lo girò e lo rigirò fra le mani, poi lo accostò
                  alle labbra e iniziò a soffiare. Fransè soffiava perché non era capace di suonare.
                  Ma il flauto d’olmo cominciò a suonare. Ricordava i canti dei cardellini e degli storni,
                  quelli dei pettirossi e dei beccafichi. Ricordava la musica delle onde del mare e i bron-
                  tolii del vento fra le rocce di Gorbio.
                  Fransè soffiava nel flauto e la musica usciva imitando le campane della torre, il miagolio
                  dei gatti, le corse dei bambini, il passo strascicato dei vecchi.
                  Il flauto ripeteva ogni suono e ogni rumore del vecchio paese di Gorbio.

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